In ricordo di Fabrizio De Andrè

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Oggi tutta la stampa ricorda David Bowie il grande e geniale cantante rock capace di dare di se stesso ogni volta un volto nuovo, sapientemente truccato, vestito e circondato da atmosfere a metà strada tra lo spaziale e il carnevalesco.

Non è di lui che vogliamo parlare, ma di un altro grande della musica, morto, per una strana coincidenza, anche lui l’11 gennaio, ma di diciassette anni fa, nel 1999, Fabrizio De Andrè, uno dei più grandi, se non il più grande cantautore italiano. Nato nel 1940 a Genova visse le sue prime esperienze musicali assieme a Luigi Tenco, a Gino Paoli e ad altri artisti della Genova degli anni 60: sin dalle sue prime incisioni cercò di sprovincializzare la musica italiana accostandosi al genere musicale di grandi autori come Jacques Brel, Leonard Cohen, Georges Brassens e Bob Dylan. E’ stato il primo in Italia a dare alla canzone contenuti nuovi, rispetto a quelli tradizionali, dimostrando come attraverso la canzone si potevano anche raccontare storie sino a quel momento riservate agli scrittori e ai poeti. E invero tutta la produzione di De Andrè è un grande affresco poetico dell’esistenza umana attraverso storie di suicidi, puttane, drogati, impiccati, ubriaconi, fannulloni, cioè di quel mondo “dove il sole del buon dio non ha i suoi raggi”, come egli stesso dice nella “Citta vecchia”. Alcuni brani, come “Il Testamento”, la “Ballata del Michè”, “La ballata dell’amore perduto”, “Bocca di rosa”, “Via del campo”, “Suzanne”, “Don Raffaè” ci mettono a contatto con questo mondo di vizi privati e pubbliche virtù, in cui vengono passate in rassegna le perversioni e il perbenismo di una borghesia dove galleggiano “banchieri, pizzicagnoli, notai, coi ventri obesi e le mani sudate, coi cuori a forma di salvadanai” di cui De Andrè viviseziona tutto il marciume e la voglia, costantemente castrata, di voler volare altrove, ma di non esserne capaci.

Nella sua produzione più matura Fabrizio De Andrè passa ad affrontare temi più impegnativi, come quelli della “Buona Novella”, ispirata ai Vangeli apocrifi, con canzoni di altissima religiosità, come quelli della raccolta “Non al denaro, non all’amore né al cielo, ispirati all’”Antologia di Spoon River” capolavoro poetico di Edgard Lee Masters, dove la vita è ripercorsa dall’aldilà, con l’occhio disincantato di chi l’ha vissuta, o come il tema della contestazione giovanile del ’68, rivissuta attraverso la raccolta “Storia di un impiegato”. Il titolo dell’ultima antologia di De Andrè, “Mi innamoravo di tutto”, può forse indicare meglio di ogni altra definizione la personalità complessa, “come un’anomalia”, ( per dirla col titolo di un’altra sua canzone), di questo artista e poeta che ha lasciato un’impronta indelebile in tutti quelli che ne hanno apprezzato e seguito l’esperienza musicale. E vogliamo ricordare Fabrizio De Andrè, David Bowie, Pino Daniele, Lucio Dalla, Lucio Battisti, John Lennon e tanti altri la cui voce e le cui canzoni hanno accompagnato la nostra vita con una canzone di De Andrè

Dormono sulla collina
Dove se n’è andato Elmer
che di febbre si lasciò morire?
Dov’è Herman bruciato in miniera?
Dove sono Bert e Tom,
il primo ucciso in una rissa
e l’altro che uscì già morto di galera?
E cosa ne sarà di Charley
che cadde mentre lavorava
e dal ponte volò e volò sulla strada?


Dormono, dormono sulla collina.
Dormono, dormono sulla collina.


Dove sono Ella e Kate
morte entrambe per errore,
una d’aborto, l’altra d’amore?
E Maggie uccisa in un bordello
dalle carezze di un animale?
E Edith consumata da uno strano male?
E Lizzie che inseguì la vita
lontano, e dall’Inghilterra
fu riportata in questo palmo di terra?


Dormono, dormono sulla collina.
Dormono, dormono sulla collina.


Dove sono i generali
che si fregiarono nelle battaglie
con cimiteri di croci sul petto?
Dove i figli della guerra
partiti per un ideale
per una truffa, per un amore finito male?
Hanno rimandato a casa
le loro spoglie nelle bandiere
legate strette perché sembrassero intere.


Dormono, dormono sulla collina.

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