Punta Raisi: storia di un aeroporto sbagliato

La prima pista

Comincia nel 1953, data di fondazione della società Consorzio Autonomo per l’Aeroporto di Palermo, costituito per individuare un sito, onde sostituire l’allora scalo cittadino, l’aeroporto di Boccadifalco, non più in grado di soddisfare alle richieste e alle esigenze di traffico aereo nazionale e internazionale  e destinato ad aeroporto militare. È il periodo (1953-55) in cui al Ministero dei Trasporti c’è Bernardo Mattarella, che, col ministero dei Trasporti avrà sempre un legame privilegiato, essendo stato anche componente della Commissione trasporti nella prima  legislatura (1948-53) e Presidente della stessa nella terza (1958-63): è difficile non pensare che non ci sia stato un qualche intervento o interesse di costui, sia nella preparazione del progetto che nell’iter che ne è seguito, non fosse altro che per rendere più fruibile e più vicino ai suoi concittadini di Castellammare lo scalo aeroportuale.

Vengono allora individuati un sito tra i comuni di Bagheria e Ficarazzi, a circa 15 km da Palermo, poco soggetto a forti raffiche di vento, ma vicino a zone abitate e con qualche ostacolo nell’atterraggio causato da Monte Pellegrino ad ovest, Capo Zafferano ad est, e i Monti di Palermo a sud; l’altro sito è una striscia di terra tra il mare e i mille metri di Monte Pecoraro, nel comune di Cinisi denominata Punta Raisi, nella parte finale del  Golfo di Castellammare, poco popolata ma soggetta a venti di caduta, specie in caso di scirocco, e ad alcune pericolose rifrazioni di luci notturne a mare poco prima dell’atterraggio. Il progetto di Bagheria, redatto dall’ing. Sebastiano D’Agostino, prevede la costruzione di due piste tra Aspra ed Acqua dei Corsari, in prossimità della piana di Ficarazzi. In un primo momento spunta anche un terzo progetto sulla piana di Buonfornello, vicino a Cefalù, in direzione Catania.

Mentre il sindaco di Bagheria si mette alla testa di un movimento d’opposizione, il sindaco di Cinisi Orlando si esprime favorevolmente e imposta una campagna di promozione della scelta: «Cittadini», dice in un comizio, «voi non capite, l’aeroporto ci porterà ricchezza, la terra sarà pagata a peso d’oro», e mostrando le palme delle mani, quasi soppesando, «qua la terra e qua l’oro».

La decisione dell’ubicazione nasconde anche una serie d’interessi speculativi sulla destinazione delle aree periferiche alla costruzione: alcune zone costiere saranno lasciate libere per favorirne l’incremento dei prezzi: ovviamente coloro che partecipano a queste decisioni o che ne sono messi al corrente, si precipitano ad acquistare quei “quattro scogli” della zona, poi chiamata “Marina di Cinisi”, per rivenderli almeno dieci o venti volte di più: è il momento in cui Palermo comincia a vivere il suo boom economico e la piccola e media borghesia comincia la corsa per l’accaparramento di un pezzo di terreno a mare per le vacanze. Da una parte si vende, dall’altra si svende: primo a firmare l’accordo per l’esproprio è un tal Vincenzo Matina, irretito dal cav. Evola, suocero di Vito Palazzolo, compare del mafioso Masi Impastato. La stangata arriva durissima: i terreni sono pagati con prezzi dalle 8 alle 80 lire per mq. e i contadini, alcuni dei quali costretti a sloggiare, dalle loro case, si rendono conto molto tardi di non poter ricavare dalla cessione neanche i soldi necessari per produrre la documentazione richiesta.

Qualcuno non accetta “la stima” del terreno e fa causa: si vedrà pagare dopo otto-dieci anni e riuscirà appena a coprire le spese legali. Altri continueranno a pagare le tasse per i terreni espropriati, dal momento che hanno rinunciato ai soldi, sino al ’68, pena il pignoramento dei beni. Vengono costruite due piste in verticale, praticamente una sola, e l’aeroporto, accaparrato in esclusiva dall’Alitalia, rimane in una situazione di spaventosa precarietà, privo delle infrastrutture indispensabili, quali la torre di controllo o la sala d’attesa, e assolutamente impraticabile quando il vento è molto forte, specie se è vento di scirocco. (vedi libro: Salvo Vitale, “Nel cuore dei Coralli”).

Nell’atto costitutivo il Consorzio aveva previsto (art. 2) un pubblico concorso per la selezione del progetto, ma non se ne fece niente e  con un colpo di mano si scelse Punta Raisi contro tutti i pareri negativi dati dai tecnici. Nel marzo 1956 il progetto venne presentato al Presidente della Regione Alessi e poi inviato al Ministero della Difesa per il rilascio dell’autorizzazione. In un’intervista rilasciata a Giuseppe Sottile e pubblicata dal Giornale di Sicilia 2 gennaio 1979 proprio Alessi racconta le vicende di tale scelta, cominciando col citare una frase dettagli dall’on. Di Bella, ex pilota e deputato della Costituente: “Stai attento, perché costruire uno scalo in quella zona è una pura follia”. Alessi dice che: “Quando mi fu presentato il progetto, i giochi politici erano già fatti e a me non restavano in mano molti margini di manovra”, e tuttavia, ricordandosi della frase del suo amico, chiede all’allora ministro Taviani una commissione, che venne nominata, con il compito di valutare la congruità dei lavori: diverse considerazioni avrebbero dovuto destare qualche perplessità, a partire dall’unica via di collegamento, con Palermo,  data dalla statale 113, con la presenza limitrofa di una linea ferrata con almeno quattro passaggi a livello su tale strada. Più grave la questione del vento, specialmente dello scirocco, che scendendo dalle gole di Monte Pecoraro – Montanello, creava violenti turbini e mulinelli che non avrebbero dato alcuna sicurezza all’atterraggio. L’on. Nicosia, del MSI, in un suo intervento all’ARS riportò un aneddoto attribuito nel ’700  all’abate Meli, il famoso poeta dialettale siciliano, che a Cinisi esercitò la condotta medica per sette anni, il quale consigliava al cacciatore di non andare a cercare gli uccelli a Punta Raisi perché il vento non permette agli uccelli di volare in quella località: “Vedete come ci siamo ridotti? – commentava il deputato – un poeta del Settecento pre-vedeva cose che un tecnico degli anni Sessanta non è riuscito a prevedere”.

L’altra ipotesi sull’ubicazione potrebbe essere stata dettata, ma abbiamo solo ipotesi e sospetti, dal fatto che gli esponenti della cosca di Cinisi, da don Tomasi Impastato a Cesare Manzella a Gaetano Badalamenti, abbiano avuto una forza politica e una capacità tale da fare orientare la scelta in un’area sotto il loro controllo, per fare di Punta Raisi la centrale del nascente e redditizio traffico d’eroina. Si tenga presente che la prima guerra di mafia scoppiò perché, per conto di Cesare Manzella, un suo emittente, Calcedonio Di Pisa andò a Castellammare per ritirare il compenso pattuito, a seguito di una grossa partita di droga partita dalla Sicilia in America e che, essendo questo compenso inferiore a quanto stabilito, la cosca palermitana dei La Barbera diede l’avvio alla guerra di mafia contro i Greco di Ciaculli e Manzella di Cinisi, ritenendo di essere stata truffata, malgrado un “giurì” d’onore avesse dato ragione a Manzella. Sulle cosche mafiose originarie di Castellammare, alcune espatriate negli Stati Uniti, si apre un altro scenario, a partire da Joe Bonanno (o Bananas) capo assoluto di Cosa Nostra americana, a Vito Bonventre, Stefano Magaddino, Salvatore Maranzano, John Tartamella, i Plaia, i Buccellato . Per una pura coincidenza Buccellato è anche il cognome della moglie di Bernardo Mattarella.

Tutto deciso in un’ora e mezzo

Così il racconto dell’on. Alessi:

“La supercommissione si riunisce il 26 settembre del ’56 ed è presieduta dal generale di squadra aerea Pezzi, che è anche segretario generale dell’Aeronautica militare. Ne fanno parte il generale di divisione aerea Remondino (destinato a diventare capo di stato maggiore dell’Aeronautica); il generale di squadra aerea Fossati; il generale di divisione Porru-Locci; il generale di divisione Abriata; il consigliere Cannarsa, del ministero delle Finanze; l’ing. Rubino, della Regione siciliana; il generale Porro, presidente della LAT (Linee aeree nazionali); il generale Gallo, direttore della LAT; l’ing. Velani, direttore dell’Alitalia.Chi può contrastare tanta scienza militare? Apparentemente nessuno. Solo che molti generali, al momento di prendere il progetto di Punta Raisi tra le mani, si dichiarano subito ottimi piloti, ma non bravi tecnici. Per questo chiedono di potersi avvalere di propri consulenti ed è così che, sotto la veste di consulenti, rientrano in gioco i progettisti dell’aeroporto maledetto, i quali, ancora una volta, diventano giudici e parte in causa al tempo stesso. Tutti i lavori della supercommissione si protraggono per un’ora e cinquanta minuti e si concludono con l’approvazione, quasi unanime, del progetto che prevede la costruzione delle piste a 800 metri di distanza da Monte Pecoraro. L’unica voce contraria è quella del generale Gallo il quale chiede espressamente che vengano inseriti a verbale i suoi pesanti rilievi”.

La costruzione del nuovo scalo, con una pista di rullaggio e una parallela di decollo e atterraggio di Punta Raisi viene approvata e finanziata con un primo stanziamento di cinque miliardi di lire – di cui tre a carico del Governo italiano e due di quello regionale – che a fine lavori sarebbero lievitati, fino a raggiungere la ragguardevole somma di undici miliardi. Va segnalato un passaggio: il Consorzio, che avrebbe dovuto bandire la gara d’appalto, viene estromesso con un colpo di mano dell’assessore Regionale Rosario Lanza, il quale presenta all’ARS un disegno di legge in cui tutto sarà gestito da un Ufficio Aeroporti regionale nelle mani degli ing. Emanuele Jaforte e Vincenzo Nicoletti, quest’ultimo capo dell’Ufficio Tecnico Comunale di Palermo, al centro di quella cricca di notabili democristiani, da Ciancimino a Lima, a Gioia, a Matta, che negli anni 60 perpetrarono il sacco di Palermo. Alla gara iniziale si presentano 36 imprese. L’appalto viene vinto, con un ribasso del 29% dalla SAB (Società Appalti e Bonifiche) di Roma. Una volta ottenuto l’appalto, non è difficile colmare il notevole ribasso con una perizia di variante che accredita all’impresa altri due miliardi. Si comincia nel  gennaio ’59 e Il primo volo inaugurale ha luogo  esattamente dopo un anno, il 2 gennaio 1960, ma già da allora, visti i problemi causati nelle giornate di forte vento, si comincia a pensare a una pista trasversale. Qualche anno dopo, nel 1968, viene dato incarico, dall’Assess. Reg. Lavori Pubblici a un gruppo di tecnici di elaborare un progetto esecutivo, comprendente, oltre che la terza pista, una nuova aerostazione. I tecnici ci mettono quattro anni prima di consegnare, nel 1972 i lavori, altri due anni passano prima che il Consiglio Superiore dei lavori pubblici e altri uffici approvino l’opera sotto il profilo tecnico, mentre vengono stanziati 4 miliardi e 900 milioni di lire, con un reintegro, l’anno dopo, di altri tre miliardi e 430 milioni, successivamente integrati (L. 493/75) con un ulteriore importo di 3 miliardi e 430 milioni di lire.

La speculazione sui terreni

Impossibile avere un’idea completa del fiume di denaro che in questi anni attraversa il territorio che va da Cinisi a Palermo: i lavori dell’aeroporto consentono un gran movimento di inerti che partono tutti da cave locali nelle mani di noti mafiosi, e che poco tempo dopo saranno utilizzati anche per la costruzione dell’autostrada Palermo-Mazara. Tutto il litorale da Cinisi a Palermo è acquistato da privati che vi costruiscono la “casa a mare”, quasi tutti abusivamente, mentre fiumi di droga, dopo gli accordi sottoscritti all’Hotel delle Palme, (14.10.1957) partiranno dalle raffinerie siciliane all’aeroporto di New York e di altre grandi città americane, per arrivare poi sui mercati dei consumatori. In tutto questo il ruolo di Gaetano Badalamenti e di altre famiglie mafiose dell’entroterra trapanese e palermitano, a lui legate, è centrale: egli è “capo” della “Cupola”, cioè il più importante punto di riferimento, sino all’omicidio di Peppino Impastato, nel 1978, anno in cui don Tano venne posato dal ruolo di capo di Cosa nostra.

Nel ventennio 1960-1980 tutta la fascia costiera da Palermo a Terrasini cambia aspetto con l’avvio di una serie di lottizzazioni più o meno selvagge che individuano porzioni di costa ottenute in concessione e messe nella disponibilità dei clienti dei vari alberghi e residence. Il costruttore Palermitano Francesco Vassallo acquista  un’area di 35.000 mq. in contrada Piraineto, di Villagrazia di Carini, lottizzandola e realizzando un complesso di 287 ville private , vendute alla “crema” della borghesia palermitana, con una sbarra che impedisce ai comuni cittadini l’accesso a mare di un vasto tratto di costa, per la balneazione. Ci sono stati vari contenziosi, alternativamente vinti da gente che reclamava il diritto di passaggio, ma non è successo niente, la sbarra è sempre là. Non meno importante la costruzione di un residence con alcuni appartamenti, tentata dal costruttore mafioso Piazza, a due passi da Torre Pozzillo, oggi confiscato e diventato sede della struttura antimafia “Ciuri di campu”.

Intanto con una divisione in lotti di cantieri che  si occupano della costruzione, viene realizzata l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, occupata, lungo il lato prospiciente il mare da una serie quasi ininterrotta di villini nati abusivamente e oggi in parte regolarizzati grazie a varie sanatorie. Tra Isola, Capaci e Punta Raisi prende corpo una barriera di costruzioni, case da villeggiatura o strutture alberghiere, dall’Hotel Saracen a Porto Rais, al Florio Park Hotel che, privatizzano gli accessi a mare, grazie a concessioni elargite facilmente. Altrettanto invasivo l’operato di singoli operatori che hanno innalzato muri dopo avere acquistato il terreno tramite un sansale, assistiti da chi si occupa del disbrigo delle pratiche amministrative, dall’architetto  che pensa a preparare il progetto, a farlo approvare, a “consigliarti” l’impresa costruttrice, la quale a sua volta avrà i suoi accordi con chi provvede agli scavi,  al movimento terra, all’acquisto di pietrame, sabbia, cemento, mattoni, piastrelle, sanitari, rubinetterie, fili elettrici. Non manca il giardiniere, imposto, che si occupa di curare il villino e le sue piante. In caso  contrario, tutto si ferma e si trova davanti  difficoltà d’ogni sorta, strani furti e danneggiamenti che alla fine convincono il proprietario ad arrendersi ai ricatti. Da allora la corsa alla privatizzazione delle coste, salvate solo dalla recinsione aeroportuale, non ha smesso di segnare ogni giorno nuove barriere ed è evidente che il processo è inarrestabile. Un sindaco di Carini che aveva iniziato la demolizione delle case abusive sulla costa non è stato più rieletto.

La terza pista

1968: i primi rilevamenti vennero fatti nella massima segretezza. Anche la procedura d’esproprio, d’intesa con l’amministrazione comunale, venne avviata senza pubblicità alcuna. La legge che regola le procedure sulle espropriazioni per pubblica utilità, prevede che la delibera sia appesa all’albo e che contro di essa ci si possa appellare entro quindici giorni: nessuno vide mai quella delibera e nessuno si appellò. Così un giorno, mentre tutti erano ignari di tutto, comparvero i tecnici per le rilevazioni ufficiali. Si formò allora, sotto l’egida del PCI e del PSIUP, un Consorzio Espropriandi, con l’obiettivo di evitare gli errori commessi all’epoca del primo esproprio. Stavolta la zona era diversa: vi lavoravano circa duecento famiglie, con una conduzione familiare delle aziende agricole: gran parte vi soggiornavano in permanenza, altri tornavano a dormire in paese, altri vi si recavano nel periodo estivo, data la vicinanza del mare e la bellezza selvaggia delle coste. Tutta la zona era ricca di alberi, di frutta, di agrumeti e di uliveti. La produzione ortofrutticola costituiva il residuo polmone dell’economia del paese, anche se, per la speculazione che sui prodotti compivano proprietari, grossisti e mafiosi, i contadini ricavavano quel tanto da sopravvivere.

 

I rilevamenti vennero osteggiati dai proprietari, ma la procedura seguì il suo iter: il progetto venne modificato più volte, poiché presentava errori tecnici grossolani, ma al di là di questo, l’intenzione era di chiudere la zona e militarizzarla “per ragioni di sicurezza”, riservando le piccole spiagge alla villeggiatura degli aeroportuali e lasciando le carte in mano a chi volesse speculare sulla vendita dei terreni limitrofi.

L’impresa venne condotta tra un mare di illegalità vergognose, con brutalità e decisione. Significativa, in quel momento, l’azione di Peppino Impastato, che davanti all’alternativa di ottenere un compenso provvisorio per i terreni, sostenuta dal Consorzio Espropriandi e quella di lottare direttamente contro la costruzione della pista, salvo un equo indennizzo, propose questa seconda via, appoggiato dalla maggioranza dei contadini. Furono organizzate due manifestazioni: nel corso di una di queste alcuni giovani, tra cui anche Peppino, vennero denunciati per manifestazione non autorizzata e costretti a subire un processo, per fortuna senza gravi condanne. C’era stato un momento in cui Peppino aveva proposto l’occupazione del Municipio: poteva essere una scelta decisiva, che quantomeno avrebbe dato risalto regionale al problema: si scelse invece, per senso di responsabilità, la via della pacifica dimostrazione, e fu la fine.

La denuncia delle illegalità non bastò. Gli avvocati Pomar e Cipolla del PCI rifiutarono la proposta di difesa legale con la motivazione che la pista si doveva fare comunque, perché era una necessità. E la pista si fece. Le rilevazioni e gli accertamenti sulla consistenza dei terreni vennero condotti con l’assistenza di due funzionari regionali, dal momento che nessuno dei cinisensi si era prestato; questi fungevano da testimoni, nello spregio totale della legge che prescriveva la residenza nel luogo d’esproprio per i testimoni; per concludere si passò all’attacco armato, nella migliore tradizione di comportamento dello stato italiano nei riguardi dei problemi meridionali.

I contadini avevano predisposto un sistema d’allarme con bombole vuote di gas. Una mattina presto sentimmo suonare le bombole e tutti ci riversammo al limite dove iniziava la zona da espropriare. Vedemmo arrivare sulla pista dell’aeroporto un nugolo di soldati e carabinieri sulle jeep, seguiti da motopale e da altri uomini in tenuta da lavoro. Il tenente dei carabinieri di Partinico, che guidava i militari, osservò con sufficienza le trecento persone riunite e rivolgendosi alle donne, esordì con atteggiamento provocatorio: «Le solite facce! Le lavandaie si stiano a casa». Uno dei contadini, Larenzu «u Spirdatu», raccolse imprudentemente, subito, il gesto di provocazione e, scavalcando il muretto che ci divideva dai carabinieri, afferrò il tenente gridandogli: «Lavandaia devi andarlo a dire a tua moglie». I soldati lo afferrarono per portarlo via, ma gli altri scavalcarono il muretto, riuscendo a togliere, a viva forza, Larenzu dalle mani degli sbirri. Il tenente provò ancora con un discorsino: «Ora ve ne tornate tutti a casa, buoni buoni, perché qui dobbiamo iniziare a lavorare».

Fu un coro di proteste: «Prima dateci i soldi», «In quale casa andremo, se ce la buttate giù?». A questo punto il baldo tenente perse la pazienza e diede ordine alle due ruspe di procedere. I presenti si sedettero a terra,  con atteggiamento muto, ma deciso. Le ruspe si fermarono quasi sopra i loro piedi.

Fallite le minacce il tenente ordinò la carica ai suoi scherani che caricarono alla cieca massacrando di botte, donne, vecchi, bambini. U zzu Luigi Rizzo, di 70 anni, svenne, colpito duramente alla testa e alle costole, e forse il suo svenimento ci salvò da ulteriori aggressioni, perché i picchiatori, convinti di aver fatto danno, si fermarono. Franco Maniaci, poi vice-sindaco di Cinisi, per avere detto «bastardo» a un carabiniere, venne portato via, e subito dopo processato e condannato per direttissima a sette mesi. Gli altri furono sbattuti come oggetti inutili, ma non riuscirono a smuoverli. In serata una delegazione si recò presso il presidente della Regione Bonfiglio, il quale disse che il massimo che la Regione avrebbe potuto fare era di dare il 10 per cento anticipato sul valore dei terreni. Significava la fame. Il Consorzio decise di accettare l’accordo, mentre la maggioranza dei contadini si pronunciò per il proseguimento della lotta. L’indomani i tecnici si presentarono certi di cominciare tranquillamente il lavoro. Ci riunimmo in un centinaio, fermandoli. I carabinieri erano stati informati, certamente da qualche dirigente del PCI, che a protestare era rimasto solo un gruppo di facinorosi, manovrato da alcuni maoisti. In serata ci avvisarono che il giorno dopo era meglio non farsi vedere. Andammo in pochi. Io riuscii a passare grazie al mio tesserino di corrispondente de “L’Ora”. Fra un gran polverone, ci trovammo davanti a un esercito di soldati, carabinieri, agenti in borghese con macchine fotografiche, cani poliziotto, elicotteri che giravano sulla contrada, pronti per affrontare la guerriglia e la rivoluzione: e fu la fine. I carabinieri stessi erano turbati e sconvolti nel sentire l’acre odore dei limoni divelti, nell’assistere allo scempio che si fece di case, ancora arredate da tutte le suppellettili, nel vedere le lacrime di chi non aveva più casa né terra.

Dopo quattro anni si cominciarono a pagare i terreni, con prezzi dalle 200 alle 700 lire mq. Molti terreni risultavano all’ufficio catasto come seminativi, nonostante fossero coltivati intensivamente, perché nessuno si era mai preoccupato di regolare la situazione, e come tali vennero stimati e pagati. Per Cinisi fu la distruzione totale della sua struttura agricola. Di tutta quella gente è rimasto ben poco: li rivediamo tutti in una rassegna tragica di ombre, quasi tutti morti poco tempo dopo l’esproprio. Si dirà: erano vecchi. È in parte vero, ma è vero che un giorno solo di vita tolto ad essi rimane un crimine di stato che nessuno potrà mai ripagare né giustificare.

Gli incidenti

In questo aeroporto si sono verificati diversi incidenti: il più grave  il 5 maggio 1972, allorché a Montagna Longa (Monte Pecoraro) andò ad urtare il Volo Alitalia 112, causando la morte delle 115 persone che si trovavano  a bordo.

Non meno cruento, sei anni dopo, il 23 dicembre 1978 lo schianto a mare del Douglas DC9 dell’Alitalia, volo AZ 4128, con la morte di 108 persone e il salvataggio di 21 dei passeggeri. Non sono mai state fatte serie indagini sui due incidenti, spiegati, il primo come un impatto con la montagna, dove non c’era alcun segnale luminoso indicativo, il secondo come un errore di atterraggio, poiché il pilota avrebbe avuto l’impressione di essere sulla pista, mentre invece era ancora sul mare. In questa seconda occasione ci si rese conto come carenti fossero i mezzi di soccorso, a parte quelli, in gran parte privati, dei pescherecci di Terrasini, che parteciparono alle ricerche. Per amor di cronaca e di completezza cito due altri incidenti, il primo del 27.9.1989, allorché un DC9 ATI diretto a Milano, con 104 persone a bordo, in fase di decollo perse quota, terminando la sua corsa a pochi metri dal mare, l’altro del 24 settembre 2010 allorché un aereo Airbus 319-132 della Wind Jet  proveniente da Roma, in fase di atterraggio uscì fuori pista, ruppe il carrello, e, per evacuare i passeggeri si fece ricorso agli scivoli.

Quella pista è servita a ben poco: nelle giornate di scirocco il traffico rimane sospeso e gli aerei stentano ad atterrare. Su quella pista di sangue sono rimasti i morti di crepacuore, gli emigrati, gli sbandati, i 223 morti dei due aerei precipitati, i numerosi incidenti, le dichiarazioni dei piloti di tutto il mondo, che ritengono Punta Raisi un aeroporto a notevole rischio-atterraggio.

Su quelle terre era stata avviata la massiccia opera di speculazione mafiosa del progetto Z-10, con un giro di 6 miliardi, la cui approvazione segreta Peppino Impastato aveva denunciato nei suoi ultimi giorni di vita, oggi per fortuna fermata. Sono spuntate ville signorili, residence turistici, case abusive, lottizzazioni selvagge. Su quelle terre sono ancora rimasti a seccare al sole i brandelli del corpo straziato di Peppino, a testimonianza di una vita che tutto aveva dato affinché gli altri continuassero a vivere con dignità di uomini. E niente altro.

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