Guerra senza pace

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Il più grande bagno di sangue che l’umanità ricordi, oltre 50 milioni di morti, di cui 16 milioni sovietici, sembrava essere passato, diluito tra i ricordi del tempo che fu o delle buone intenzioni del “non succeda mai più”. Nell’ambito dei bla-bla e delle salvaguardia dell’umanità dalle guerre, si corresse la precedente Società delle Nazioni, la si chiamò ONU, lasciando a tutti l’illusione che sarebbe servito a garantire la pace, anche a costo d’intervenire militarmente là dove i conflitti non accennassero a fermarsi. 85 anni di complessiva pace, comunque armata, almeno nel settore “occidentale”, forse sono sembrati sufficienti per ricominciare. I mercanti di armi erano in fibrillazione, non era mai successo che non ci fosse un conflitto allargato: in Serbia c’era stata una dimostrazione, ma tutto era finito troppo presto. E quindi è cominciato in Ucraina, allorché i russi hanno deciso di concludere un conflitto sotterraneo che durava da otto anni, per riprendersi la Crimea e i limitrofi quattro statarelli russofoni vessati dalle angarie degli ucraini e dei filonazisti delle brigate Wagner. A Putin, al di là della scelta militare, della guerra, va la responsabilità storica di avere tolto il tappo del vaso di Pandora, di avere dato la stura alla malvagità rimossa e di averla liberata. E così l’incendio si è allargato in Palestina, uno dei settori più caldi del pianeta, con l’infame strage compiuta da Hamas, sicuramente con l’obiettivo provocatorio di spingere Israele alla guerra e al massacro, ma senza alcun progetto su come costruire un nuovo stato palestinese. Trascuriamo una trentina di altri conflitti locali, pieni di morti e di crudeltà, che non fanno notizia, e, a seguire, quella notevole scia di migranti e profughi di guerra che sta popolando di morti il fondo del mediterraneo, e di vivi la Libia, la Turchia il nord Europa, il sud Italia di bidonville, attendamenti, campi di concentramento e cadaveri. Non è inatteso il risveglio dell’odio, che va conquistando piano piano vaste zone del mondo, per cercare di arrivare allo scontro finale in cui resteranno macerie e silenzio: un percorso tipico di quella parte dell’uomo che Freud ha identificato in Thanatos, l’istinto di morte, la connaturata aggressività che porta gli esseri umani a scontrarsi per consumare la prevaricazione sull’altro, la distruzione, l’alimentazione dell’odio, per assicurarsi la vittoria sulla volontà di pace, sull’operosità costruttiva, sulla convivenza e sulla collaborazione. Stare insieme e costruire oppure dividersi e distruggere: vita-morte, guerra-pace, più-meno. Una volta sveglio l’odio, che forse non si era mai addormentato ha trovato facili esche in tutti i malcontenti, opportunamente pilotati dai signori dell’informazione, e così chi non aveva nemici se n’è inventato uno, fosse pure uno o centomila migranti, chi era pacifista è stato subito accusato di stare con l’aggressore, essendo colui cui la pace fa comodo, chi voleva essere equidistante era anche lui amico dell’aggressore, perché non si era schierato a favore dell’oppresso, chi aveva un progetto politico diverso da quello governativo era un nemico della patria, perché nel momento dell’emergenza bisognava schierarsi con il governo eccetera, tutte cose già sperimentate nelle passate due guerre mondiali e direttamente copiate, comprese le regole e le tecniche suggerite da Gobblins, il ministro della propaganda nazista, per conquistare il consenso delle masse. Tutto il giornalismo della destra mondiale conosce queste strategie: quello italiano, dopo essersi nutrito dei soldi di Mediaset ha alimentato la sua velenosità con la proprietà di tutte le macchine e le agenzie d’informazione, persino con il controllo anche dei grandi network internazionali, scegliendo quotidianamente i temi e le parole d’ordine con cui alimentare l’odio e pilotare le opinioni dell’ascoltatore.

Com’è noto nel 1932 Einstein scrisse una lettera a Freud ponendogli alcuni quesiti, compreso quello se l’uomo, usando la sua intelligenza, sarebbe stato capace di liberarsi dalle guerre. Nella sua lettera c’erano già celate alcune risposte che Freud avrebbe confermato: “È possibile dare una sola risposta. Perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva”.

Freud rispondeva: “La nostra pulsione distruttiva è all’opera nell’interno di ogni essere vivente e la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato di materia inanimata…”. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea”.

Malgrado l’amarezza del constatare che la razionalità non è in grado di tenere sotto freno la pulsione di morte, Freud conclude con un filo di speranza: “Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è utopistico sperare che l’influsso di due fattori – un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un tempo prevedibile. Per quali vie dirette o traverse, non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dire che tutto ciò che favorisce il processo della civiltà lavora anche contro la guerra”. Era una speranza destinata a naufragare nell’oceano di sangue della seconda guerra mondiale. E quindi il problema si ripropone nella sua crudele realtà: esistono i mercanti di armi, che sono veri e propri centri di potere e artefici delle decisioni degli stati; a seguire c’è la stampa, che amplifica le scelte di regime, favorisce fenomeni di odio o di feeling verso l’antagonista o il leader amico ed è un’autentica macchina del fango; ci sono poi i padroni del mercato economico, che va dai prezzi dei generi alimentari, a quelli dei carburanti, dell’acqua, dei fertilizzanti, degli strumenti di lavoro, di tutto ciò che può servire a una economia di vita o di sopravvivenza, a seconda del momento o della decisione di distruggere un settore per sopravvalutarne un altro. Sono questi che fanno la guerra, perché le guerre significano affari, drenaggi di soldi, ricomposizioni sociali di gente che dopo le violenze vissute è disposta ad accettare altre violenze, pur di sopravvivere. Oggi, dal 1932 c’è qualcosa in più o di apparentemente diverso: il tessuto sociale è stato interamente disintegrato, il cittadino è stato inscatolato in casa e ufficio, senza alcuna iniziativa o alcun strumento di socializzazione. Ci si incontra al supermercato o per strada per salutarsi e poi si va a casa a trafficare con quella parte di se stessi che è il cellulare, oppure con le produzioni televisive a puntate. Quindi è venuta meno la prospettiva della rivolta, dell’agitazione sociale, della ribellione: tutto diventa accettazione, come se quel che succede all’esterno fosse compreso nel cerchio dell’inevitabilità. La forza di convinzione dei mass media è diventata il modo normale e comune del pensiero, di cui eventuali polemiche sono solo strumenti di supporto e di rinforzo; il tessuto sociale si è ulteriormente allentato, i rapporti familiari sembrano appiattirsi su semplici legami di sangue, senza affetti e assistenza reciproca; la concorrenza sul mercato del lavoro, causata della tecnologia, dall’aumento del plusvalore, dalla concorrenza di chi offre la propria prestazione a un prezzo più basso ha causato perdite di posti di lavoro, difficoltà e impossibilità di organizzare un progetto, far fronte a un prestito, costruire una casa o una famiglia, fare un investimento produttivo. La divaricazione tra il massimo della ricchezza e quello della povertà, non ferma la fame di denaro e la voglia di incrementarlo attraverso le guerre. Fallito anche il ruolo dell’ONU, a causa dei veti reciproci tra i vari stati, rimane la coesione politica della Nato, comandata dagli USA, insufficiente per assicurare un equilibrio mondiale se non con il terrore contro quelli che, a seconda del cambio degli equilibri politici americani, vengono etichettati come “stati canaglia”. Un bel quadro di buie prospettive, non c’è che dire. Tutto sta in un pensiero di Mario Improta“Chissà se tutti i traditi e i delusi della Terra, tutti i distratti e tutti quelli che hanno sperato nei buoni propositi da bravi cittadini, riusciranno mai a cambiare queste logiche. E trasformare il tradimento in rivalsa, la delusione in grinta, la distrazione in fermezza, la speranza in traguardo. Chissà. Per il momento, possiamo indignarci per l’ipocrisia dei più. Ma non basterà”.

Pubblicato su antimafiaduemila.com

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