I boss al maxiprocesso. Nel bunker di Palermo il crepuscolo della mafia (FOTO)

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Il 10 febbraio di trent’anni fa i capi delle cosche finirono alla sbarra. Con Falcone e Borsellino arrivò il primo duro colpo dello Stato

Il 10 febbraio del 1986 era un lunedì. Ma per Palermo, per i siciliani non era un giorno qualunque. Quella mattina aveva inizio il primo grande processo contro Cosa nostra, più semplicemente il “Maxiprocesso” o – ancora più sinteticamente – “u Maxi”, termine che rendeva bene la familiarità con cui la società, ma anche la stessa mafia, accoglieva quella resa dei conti messa in piedi da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e dai pochi magistrati che avevano fatto parte del famoso pool antimafia di Palermo.

Nessuno, ma proprio nessuno credeva che quel processo si sarebbe celebrato. C’era chi aveva addirittura ipotizzato una specie di legittima suspicione motivata con la necessità di evitare ulteriore spargimento di sangue a Palermo. Ma Falcone ostinatamente andò avanti affermando perentoriamente che il processo andava fatto in Sicilia, a Palermo, perché lì la mafia aveva offeso e delegittimato il popolo siciliano e rinunciare sarebbe equivalso ad arrendersi a Cosa nostra. E così riuscì ad ottenere che lo Stato si impegnasse, innanzitutto trovando i soldi, una barca di miliardi, per la costruzione dell’aula bunker, sicura e capace di ospitare tutti gli imputati, gli uomini della sicurezza, gli avvocati, i giornalisti, il pubblico, insomma garantendo un dibattimento “normale” e con tutte le garanzie. Nacque così l’astronave verde, come venne chiamata l’aula per via del colore predominante e della forma ottagonale, perimetrata internamente dalle gabbie che ospitavano i 475 imputati, guardati a vista da due carabinieri per cella. Un’opera monumentale, munita della tecnologia adatta alla digitalizzazione degli atti e protetta anche dai pericoli di un attacco missilistico, ipotesi allora presa molto seriamente.

I giubbotti antiproiettile
Quel lunedì di febbraio c’erano accreditati duecento avvocati e quasi 600 giornalisti giunti da più paesi. Qualcuno, esagerando, portò l’occorrente per effettuare collegamenti tv indossando elmetto e giubbotto antiproiettili. La procedura per entrare avrebbe scoraggiato chiunque, ma non i cronisti che quel giorno lo aspettavamo almeno dal 1983, da quando cioè Giovanni Falcone era riuscito a far collaborare Tommaso Buscetta, il pentito per antonomasia. Ciascun giornalista veniva schedato, gli venivano prese anche le impronte digitali, poi fotografato e “passato” al metal detector. La fila dei cronisti appariva sterminata. Arrivammo che non era ancora spuntato il sole, credendo di essere più furbi degli inviati arrivati dal Nord e dal resto del mondo. Dovemmo ricrederci quando trovammo, già appostato davanti alla porta blindata e munito dell’inseparabile binocolo da teatro, il mitico Giampaolo Pansa.
L’”astronave verde” era davvero spettacolare: ospitava più di mille persone ma restava immensa, trasmettendo l’idea della superiorità dello Stato legale rispetto alla boria dell’antistato. Apparivano piccoli, i mafiosi rinchiusi in cella. Ridimensionato Michele Greco, il “papa”, col suo Rolex d’oro e quell’aria da gran sacerdote, addirittura ridicolo Luciano Liggio con l’anello al mignolo e il sigaro cubano spento tra le labbra.
Un quadretto a parte meritavano gli avvocati, la maggior parte dei quali appiattiti sulle richieste dei loro clienti, che li volevano strumenti per sabotare il maxiprocesso. E così molti – un po’ come sta accadendo adesso al processo di “Mafia capitale” a Roma – finivano di assicurare il giusto diritto alla difesa per accostarsi quasi affettivamente ai loro assistiti e cedere a richieste poco decenti, come la lettura integrale degli atti, prassi desueta nei dibattimenti “normali” che sarebbe servita solo ad allungare il processo fino alla scadenza dei termini di carcerazione preventiva. Un’affezione clientelare giustificata anche dal ritorno economico che consentì a qualche legale l’acquisto di uno yacht, umoristicamente chiamato “Maxi”.

C’era la doppia Corte, nel caso fossero rimasti uccisi i “titolari”, presidente Alfonso Giordano e Piero Grasso giudice a latere. Ma c’era anche la doppia giuria popolare e il doppio Pm, Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. Spesso l’aula si accendeva in una bolgia, quando si faceva dura la schermaglia tra accusa e difesa. O quando gli avvocati si spingevano, cosa inconsueta, a chiedere la ricusazione dei giudici designati. Alla bolgia non si sottraeva il pubblico.

Le donne
Ancora indelebili le immagini delle donne del mafioso Vincenzo Buffa che inveivano contro gli “sbirri” colpevoli di voler far pentire il boss. Inutile aggiungere che Buffa non si pentì mai più. Ma, in positivo, altrettanto indimenticabile l’ingresso di Vita Rugnetta (figlio ucciso nella guerra di mafia) che esibiva la foto del suo caro ai detenuti, sibilando semplicemente: “Assassini”.

E il silenzio che calò sull’astronave quando arrivò il momento dell’interrogatorio di Masino Buscetta. L’ex boss si presentò in doppiopetto blu e pantaloni grigi, camicia bianca e cravatta. L’aula divenne di gelo e dalle gabbie non volò una mosca. Poi il boss Pippo Calò, incautamente, chiederà il confronto uscendo distrutto dalla prorompente personalità di don Masino.

Così cominciò la rivincita dello Stato, tanto che Cosa nostra (alla condanna definitiva in Cassazione del gennaio 1992: 19 ergastoli e migliaia di anni di carcere) si vedrà costretta a cambiare pelle e ad abbracciare la via dello stragismo (Capaci, via D’Amelio, Roma, Firenze e Milano) per tentare di raddrizzare una situazione compromessa. Ma sarà inutile, il seme del maxiprocesso era ormai germogliato e le condanne ottenute da Giovanni Falcone e dal suo pool rimarranno un punto di non ritorno che neppure la folle scelta di Totò Riina ha recuperato. Purtroppo questa vittoria è costata cara: le vite di Falcone, di Francesca Morvillo, di Paolo Borsellino e degli uomini delle scorte. Le vite innocenti dei morti di Firenze e Milano.
[f. l. l.]

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«Ci sono cose che ti segnano per sempre, marchiano a fuoco la tua vita. Senza timore di apparire retorico, posso dire che il maxiprocesso contro Cosa nostra è l’avvenimento che mi ha toccato e non mi ha più lasciato».
Piero Grasso oggi è la seconda carica dello Stato, ma non ha dimenticato il 10 febbraio del 1986, giorno in cui si aprì il primo grande processo contro la mafia. Sono passati ormai trent’anni ma il ricordo è ancora nitido.
«Fu una grande vittoria di tutta la società civile, dello Stato, di quel pugno di magistrati eroici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino più di tutti, che riuscirono in una impresa dai più ritenuta impossibile per le difficoltà insite nella sola idea di voler processare in blocco Cosa nostra e per il ritardo culturale che, fino a quel momento, aveva reso inadeguata la lotta alla mafia. Ma fu anche la vittoria del popolo siciliano che poté – per una volta – vedere alla sbarra personaggi di cui non si era potuto neppure pronunciare il nome. Fu la fine della sovranità limitata delle Istituzioni nei confronti del malaffare».

Eppure, presidente Grasso, fino all’ultimo ci furono forze che remarono contro nel tentativo di affondare l’«astronave verde», com’era stata definita l’aula bunker di Palermo costata miliardi e anni di lavoro.

«La mafia aveva scommesso tutta la propria credibilità ed assicurato al popolo di Cosa nostra che avrebbe avuto successo ancora una volta la pantomima, riducendo il maxi ad una enorme bolla di sapone. Per fortuna andò in modo completamente diverso».

Risultò difficile persino comporre la Corte e il presidente Alfonso Giordano dovette arrivare dal tribunale civile.
grasso maxiprocesso c ansa«E’ vero, si registrarono parecchie defezioni da altri presidenti delle sezioni penali. C’era chi accusava malanni, chi dichiarava di avere altri impegni. Le difficoltà erano maggiori, se si pensa che – per evitare sovraesposizioni della Corte – si dovette raddoppiare il numero dei giudici. Anche i pm erano due, Ayala e Signorino, e furono duplicati pure i giudici popolari».

Ci furono minacce?
«Tentativi di avvicinamento, di certo. Ma devo dare atto, soprattutto alla giuria non togata, che la trincea tenne benissimo. Semplici cittadini compresero appieno l’importanza del ruolo che lo Stato aveva loro affidato. E d’altra parte le cautele erano d’obbligo in un clima che non prometteva niente di buono: si temeva addirittura un attacco aereo contro l’aula bunker e un qualche omicidio ben mirato avrebbe potuto mandare per aria l’esito del processo. A distanza di trent’anni possiamo dire che senza quel successo saremmo un po’ meno liberi, perché la lotta alla mafia – credo sia ormai chiaro a tutti – è una battaglia di libertà e di democrazia».

Fu il «maxiprocesso» a metterla in contatto con Giovanni Falcone?
«Praticamente sì. Dopo la mia designazione a giudice a latere andai a trovarlo nel suo bunker per comunicargli la decisione del presidente del Tribunale. Lui mi scrutò col suo sguardo sornione e indagatorio e mi disse: “Vieni che ti presento il maxiprocesso”. Di fronte a quel mostro dovetti sforzarmi per non confessare tutto il mio panico. Lui mi guardava sottecchi e scrutava la mia reazione. Si tranquillizzò quando, con voce ferma, chiesi: “Qual è il primo volume?” Aveva capito che avevo voglia solo di cominciare al più presto».

Non poteva immaginare, Giovanni Falcone, che proprio il successo ottenuto nel maxiprocesso sarebbe stata la causa della strage che lo avrebbe ucciso, insieme con la moglie, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, e della seconda strage che costò la vita a Paolo Borsellino e ai suoi «angeli custodi».
«Già, si può dire che per la mafia Falcone e Borsellino “dovevano” morire perché avevano infranto il mito dell’invincibilità di Cosa nostra con mezzi assolutamente nuovi – pensiamo solo a come furono utilizzati Buscetta e i pentiti di mafia – e finalmente concessi da quel potere politico non più succube dell’innaturale alleanza coi boss. Dobbiamo molto a tutti quei servitori dello Stato che hanno sacrificato le loro vite in questa battaglia. Per questo non smetterò mai di insistere e di spronare la magistratura e gli apparati investigativi a cercare la verità. Anche se dovesse risultare scomoda».

Pensa vi sia ancora da scavare nelle nostre recenti storie giudiziarie?
«Ho fatto un giuramento davanti ai corpi martoriati di Falcone e Borsellino. Ho promesso che non mi sarei mai fermato nella ricerca delle verità sulle dinamiche che hanno causato la loro fine. E credo che non tutto sia ancora stato chiarito. Rivendico il merito di aver portato alla luce, con il pentimento di Gaspare Spatuzza, una verità giudiziaria – sulle stragi di Capaci e via D’Amelio – diversa da quella che era stata data per certa fino a quel momento, e nuovi elementi sulle stragi “in continente” a Firenze, Roma e Milano del 1993 quando la mafia cambiò strategia e virò la sua violenza contro il patrimonio artistico, causando morti innocenti anche lontano dalla Sicilia. Prima di approdare alla politica, da procuratore, ho continuato a ricercare, sempre nel rispetto delle regole e delle competenze del ruolo, ma utilizzando allo stesso tempo tutti gli strumenti a disposizione della procura nazionale, informazioni che, se confermate, potessero dare nuovo impulso alle indagini delle procure su vicende dolorose e irrisolte, pensiamo solo ai delitti La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, Agostino, Insalaco e Reina. Ancora oggi credo che ci siano angoli da illuminare e intuizioni che meriterebbero un maggiore approfondimento».

Fonte: La Stampa dell’8 febbraio 2016

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