Il “finto apostolo” e il senatore. Danilo Dolci visto da Santi Savarino

Parte di un articolo di Pierluigi Basile pubblicato su Antimafia Duemila il 19.7.2022

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La domenica del 12 febbraio 1956 Santi Savarino dedicava a Dolci un lungo articolo di fondo sulla prima pagina del suo quotidiano, “Il Giornale d’Italia”,  dal titolo “E parliamo del sig. Danilo Dolci….”

Un lungo testo carico di livore che riflette la cultura e i pregiudizi di chi scrive e la sua precisa volontà: “demitizzare” il personaggio e “demistificare” la sua opera per instillare il dubbio che dietro il paravento de «l’apostolo Danilo» – come ironicamente lo definisce Savarino – ci sia ben altro.

Il nostro Dolci – sempre chiamato “signore”, ad evidenziare l’assenza di titoli – «vive comodamente, non ha né arte né parte, e scrive libri» secondo Savarino, che “invece”, tralasciando la politica, per vivere scriveva articoli e commedie.

Danilo era dunque un nullafacente e per di più un mantenuto che non rinunciava ai vantaggi della sua condizione, tanto da marciare «in Lancia di grossa cilindrata regalatagli da benefattori». Non era l’unica contraddizione a saltare davanti gli occhi dell’acuto senatore: infatti il suo aspetto corpulento stonava con i lunghi periodi di astensione dal cibo, cosa che portava Savarino a maliziare: «digiunava in pubblico – il giorno, ché, per la notte, dobbiamo credergli sulla parola».

Tutto, dal suo comportamento alle sue scelte più inattese (come la decisione di sposare una popolana trappetese, la vedova Vincenzina Mangano) rispondevano secondo l’estensore dell’articolo alla precisa volontà di incantare il mondo esterno, costruendo a tavolino una figura fittizia così descritta: «il redentore, l’atteso, il messia, un novello San Francesco che incanta i lupi e uccelli e sposa, materialmente stavolta, sorella Povertà, con sette figli, per dimostrare tutto il suo disinteresse e il suo amore per il popolo».

Il senatore si sforzava allora in tutti i modi di strappare questa immagine illusoria e mostrare la realtà oltre le apparenze dell’autorappresentazione: dunque Dolci veniva dipinto come un bugiardo eretico («si dice cattolico [ma] fa la propaganda protestante»), pericoloso in quanto circondato da pregiudicati venuti da lontano e sostenuto dai comunisti. Le puntuali denunce contenute nei suoi studi e nei suoi innumerevoli appelli scaturivano da una «congegnata campagna scandalistica per fini non chiari, o chiarissimi» che «specula[va] sulle disavventure di tutta una cittadinanza, di tutta una regione, che ha avuto la disgrazia […] di far parlare di sé a causa di qualche bandito».

E allora nelle conclusioni ecco Savarino ergersi a paladino di una Partinico offesa, tradita, illusa che «non ha bisogno di ciarlatani» ma di concrete risposte da parte dello Stato centrale e del governo regionale: e pazienza se in apertura aveva ricordato che grazie a quello strambo, «piombato da ignoti lidi», la Cassa per il Mezzogiorno aveva da poco stanziato 51 milioni per la costituzione di un consorzio irriguo tra 400 agricoltori.

Con quale furiosa indignazione il nostro senatore avrebbe appreso la notizia che un Istituto scolastico, proprio nella sua Partinico, sarebbe stato intitolato a quel “cialtrone” di Dolci possiamo solo immaginarlo. Quello che non possiamo nemmeno immaginare è come reagirebbe alla notizia che il suo nome invece sarà presto (e finalmente!) tolto dal Liceo cittadino per far spazio a due “signori” come li avrebbe definiti lui – tali Peppino Impastato e Felicia Bartolotta – che appunto non ebbero in vita titoli accademici, ma come Danilo scrissero pagine indimenticabili di Storia stando dalla parte giusta.

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