Le mafie con una solida “vocazione imprenditoriale” si inseriscono nei settori più disparati, egemonizzando la società e manovrando istituzioni e imprese.
La DIA cita ripetutamente il “metodo Falcone”, quel metodo investigativo sempre validissimo per ricostruire trame e intrecci, potentati e consolidati domini delle cupole criminali. Quelle cupole che si nutrono non solo di consolidati network criminali ma anche di “comportamenti mafiosi latenti” espressi da “soggetti contigui, diventati punti nodali del network economico delle cosche, ma anche da giovani leve, espressione familiare delle stesse organizzazioni, progredite culturalmente e perfettamente integrate nel tessuto sociale ed imprenditoriale del Paese”. L’idea delle mafie come estranee ad un tessuto sociale sano, a piccole entità aliene facilmente allontanabili, non permette comprensione e contrasto. Le mafie sempre più sono presenti nelle stanze dei bottoni, dirigono amministrazioni pubbliche e governano interi settori economici. Se fino a pochi anni fa si poteva ancora tentare di parlare di una lotta tra Stato e anti-Stato, oggi quell’illusione è completamente spazzata via. Scrisse Roberto Scarpinato nel libro “Il ritorno del Principe – la criminalità dei potenti in Italia” (giugno 2008) “il mondo degli assassini comunica attraverso mille porte girevoli con insospettabili salotti e con talune stanze ovattate del potere” e che “in Italia la storia nazionale, quella con la S maiuscola, è inestricabilmente intrecciata con quella della criminalità di settori significativi della sua classe dirigente, tanto che in taluni tornanti essenziali non è dato comprendere l’evoluzione dell’una senza comprendere i nessi con la seconda”.
Nel rapporto annuale presentato il 12 aprile scorso la Procura Nazionale Antimafia, come ha evidenziato il giornalista d’inchiesta Nello Trocchia, chiariva che espressioni come ecomafia sono superati, non descriverebbero più l’attualità dell’impresa criminale. Il fulcro, leggiamo nel rapporto, non si trova “nelle ingerenze della criminalità mafiosa nello specifico settore, bensì nelle deviazioni dal solco della legalità, per puro e vile scopo utilitaristico:
“Tutta la storia della gestione illegale dei rifiuti – scrive Nello Trocchia – della devastazione ambientale anche riferibile al caso campano e anche in presenza di infiltrazione dei clan è una faccenda di soldi. Se si torna indietro tutto iniziò con le dazioni di denaro a politici e funzionari compiacenti, corrotti in cambio delle autorizzazioni a scaricare”. E’ la sintesi perfetta degli ultimi venti-trent’anni. Dalle inchieste sulle cave abbandonate nell’Abruzzo interno degli Anni Novanta a Resit, la discarica di Cipriano Chianese su cui indagò Roberto Mancini, tutte raccontano di corruzione a politici e funzionari per scaricare rifiuti di ogni tipo di industrie soprattutto del Nord Italia. Nella discarica Resit tra il 1987 e il 1991 furono smaltite almeno 30.600 tonnellate di rifiuti provenienti dalla bonifica dell’Acna di Cengio, un’azienda savonese di coloranti. Lo stesso Cipriano Chianese era un avvocato vicino ad ambienti di altissimo livello e la “immonda e sconcia storia criminale e camorristica” della discarica Resit non sarebbe esistita – denunciarono Nello Trocchia e Luca Ferrari nella biografia di Roberto Mancini “Io morto per dovere” – “senza l’appoggio di importanti figure della borghesia affaristica” politici, infedeli servitori dello Stato, professionisti e imprenditori.
Dossier completo, dalle “terre dei fuochi” del Nord Italia alle navi dei veleni di ieri e di oggi, dalle holding degli schiavisti alle massomafie, è disponibile QUI
Alessio Di Florio
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