Amore che vieni, amore che vai

0
Dal familismo all’amore familiare

Da quando nel 1958 il sociologo americano Banfield coniò il “familismo amorale” (“Le basi morali d’una società arretrata”), il termine “familismo” ha progressivamente assunto un significato negativo. Anche l’Enciclopedia Treccani, nella sua definizione scrive: “Nel linguaggio della sociologia, la tendenza a considerare la famiglia, con il suo sistema di parentele, con la sua tradizione, la sua posizione sociale, e soprattutto con il legame di solidarietà interno tra i suoi membri, predominante sui diritti dell’individuo e sugli stessi interessi della collettività”. L’amoralità sarebbe una sua aggravante, nel senso di giustificare, al di là delle valutazioni morali, tutto quello che viene fatto per l’affermazione della famiglia e assumere questa come la regola accettata da tutti i componenti della comunità. In molti casi si dovrebbe parlare di familismo a-sociale, a-civico, a-politico, a-legale ecc., ma l’amoralità finisce anche per giustificare il furto, il delitto e tutto ciò che favorisce il potere e l’affermazione della “famiglia”, trasformandosi in immoralità.

Si esclude in tal modo, o si riduce la valenza positiva del rapporto d’amore tra i vari membri della famiglia e del forte legame di solidarietà che la tiene unita nel contesto dei reciproci affetti. E in realtà, escluso il familismo, non si trova un vocabolo unico che definisca l’amore parentale-familiare, eccetto il greco “storghe”, che sarebbe la prima delle quattro forme d’amore per i Greci, cui segue la “philia” (l’amicizia), “l’eros”, ovvero il rapporto emotivo, sentimentale ed erotico, e l’agape, ovvero l’amore spirituale, che si eleva dai sensi alla pura razionalità, e che nelle esperienze mistiche conduce alla “kenosis”, ovvero allo svuotamento di se stessi e all’accettazione totale della volontà della divinità o, per rimanere in terra, all’identificazione del proprio essere in quello della persona amata, “ut unum sint”. L’opposto di quell’egocentrismo che vede prima in se stessi e poi nel gruppo di appartenenza, che diventa un’estensione di se stessi, il senso dell’esistenza e la giustificazione delle sue scelte. Il rapporto sociale, intersoggettivo, ha un senso e vale solo se ha una funzione strumentale e utilitaristica volta al potenziamento del sé e del nucleo attorno a sé: “tutto quello che può servirmi è quello che per me vale”.

Gli anni ’60 hanno segnato quella che Cooper definiva “La fine della famiglia”, attraverso una sorta di riscoperta delle linee guida scritte da Engels nel suo “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”. La famiglia è, in questa lettura, il luogo dove si perpetua l’oppressione e la subalternità fra i sessi e fra genitori e figli. Il luogo dove la donna è schiava della casa e della famiglia e l’uomo, suo malgrado, è il veicolo di tale oppressione e schiavitù. Engels chiarisce come la schiavitù e l’oppressione della donna nella famiglia e nella società non sono sempre esistite, ma che iniziano con la nascita della famiglia monogamica, responsabile della schiavitù domestica della donna, e con il successivo avvento della proprietà privata e della divisione della società in classi. In questo contesto la famiglia borghese diventa la base su cui si fonda e si alimenta il sistema capitalistico, sia attraverso la riproduzione di forza-lavoro (i figli), sia attraverso la sua struttura piramidale, che trasmette le regole comportamentali e l’istruzione attraverso cui si afferma il potere delle classi dominanti.

Gli “Studi sull’autorità e la famiglia” della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm) hanno approfondito questo solco, individuando le strutture autoritarie che strutturano i sistemi educativi e predispongono alla perdita dell’autonomia di giudizio, alla identificazione nel padre, nel leader, nella uniformità della massa, all’introiezione di tali modelli e alla loro costante trasmissione generazionale. Sono gli anni in cui dilagano i fascismi e le facili demagogie per catturare il consenso delle masse, ovvero i populismi. In tal senso la famiglia rappresenta la base, il livello di partenza per conquistare e trasmettere il consenso. Ed è quindi un’entità politica, al di fuori degli aspetti emotivi che sono in gran parte banditi. Si pensi alla rigida educazione dei figli dei benestanti inglesi, ai quali non era consentito alcun gesto d’affetto reciproco, anche se poi non c’erano tante differenze con i figli, le mogli, i padri e le madri dei napoletani, che ancora, negli anni ’50 si davano del “voi” o dei siciliani, che si davano del “lei”, ovvero del “vossia”, (forma sincopata di “vostra signoria”).

Non meno problematica la posizione della Chiesa Cattolica, della quale l’ultima analisi è stata tracciata da papa Francesco nella “Amoris laetizia” con l’obiettivo di rileggere e adeguare le posizioni della Chiesa rispetto alle mutate condizioni dei tempi. Il papa scrive: “È un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele e dai vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato:

«I miei fratelli si sono allontanati da me, persino i miei familiari mi sono diventati estranei. […] Il mio fiato è ripugnante per mia moglie e faccio ribrezzo ai figli del mio grembo» (Gb 19,13.17)

L’abbandono del tetto familiare è un passaggio inevitabile, “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne” (Gen 2,24), anche per lo stesso Cristo che abbandona i genitori (“il mio regno non è di questa terra”) per andare a predicare nel tempio e per i discepoli che abbandonano la famiglia per seguire Cristo. Del resto già quella di Cristo è una strana famiglia, con uno dei suoi componenti in un ruolo “ombra” rispetto alla moglie che non è moglie e a un figlio di cui non è padre. In difesa della famiglia Bergoglio ribadisce l’indissolubilità del matrimonio, l’obiettivo della procreazione, il divieto dell’aborto, ma rivede interamente i passaggi di sottomissione della donna all’uomo rivendicandone un ruolo paritario. C’è poi la condanna di “un individualismo esasperato che snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto”, per arrivare alla conclusione che “Nel cuore della famiglia, la persona si integra con naturalezza e armonia in un gruppo umano, superando la falsa opposizione tra individuo e società”.

Il venir meno di alcune forme d’autoritarismo, non certo la loro scomparsa, è servito ad annodare i rapporti familiari, a generare forme d’intesa e di “complicità”, ad avviare dialoghi e nell’illusione di stabilire un rapporto d’amicizia, da parte del genitore, che comunque nasconde sempre il tentativo di non perdere il controllo del figlio e di alimentare forme di iperprotezione nel momento in cui costui si ritiene vittima di un’ingiustizia, mentre, da parte del figlio c’è una sorta di prolungamento dell’incertezza esistenziale nella certezza del genitore. La crisi degli ultimi anni ha acuito la responsabilità che i genitori affidano a se stessi di “costruire il futuro” dei figli, ma anche di continuare ad assisterli, a tenerli a casa, nel momento che non ci sono disponibilità di lavoro né certezze sull’organizzazione del domani. Si è cercato di definire coloro che, per vari motivi rimangono nella casa paterna con una serie di epiteti, come mammoni, bamboccioni che tendono a scaricare sugli stessi giovani, quasi fosse colpa loro, la difficoltà di trovar casa e lavoro. Si pensi al 66% di giovani che in Italia vivono ancora in famiglia oltre i 30 anni rispetto al 3,2% in Danimarca e al 4,7% in Finlandia, rispetto a una media europea del 30,6%. Sul Fatto Quotidiano del 15 novembre 2018 la giovane ricercatrice italiana Silvia Ronchi, emigrata a Basilea si chiedeva: “Con 1000 euro al mese come fai a vivere?”. E si pensi che il reddito di cittadinanza individua la cifra minima di sopravvivenza in 780 euro al mese. Ma c’è chi annaspa con molto di meno alla ricerca del lavoro che non c’è: nel decennio della crisi (2008-2017) nella sola Sicilia si sono persi ben 160 mila posti di lavoro, che il tasso di disoccupazione si aggira tra il 21 e il 30%, che i giovani “Neet”, che hanno rinunciato a tutto, non lavorano e non studiano, sono 483 mila, e che, secondo l’ultimo studio della CGIL Sicilia, ben 260 mila famiglie, pari al 12% e circa 600 mila persone vivono sotto la soglia di povertà assoluta, mentre il 26%, cioè più del doppio, vive in condizioni di povertà relativa, ovvero sotto il continuo incubo di ritrovarsi totalmente poveri davanti a un qualsiasi imprevisto, come una malattia o un incidente. Non si tratta pertanto di sviscerato amore dei giovani maschi nei confronti delle loro mamme o delle madri nei confronti dei figli, come spacciato dai giornalisti di varia provenienza, ma di trovare un minimo di sostegno e di sopravvivenza sotto il tetto familiare, dove qualcuno ancora dispone di una pensione.

Per contro i flussi migratori verso altre regioni o nazioni alla ricerca di lavoro hanno scavato fiumi di dolore e di tristezze sia nei genitori, sia nei figli costretti a scegliere l’incertezza per il certo, il lavoro e l’autonomia rispetto alla disoccupazione e alla dipendenza familiare.

In un post su Facebook il 5 gennaio 2019 a firma Nanni Barbaro, si osservava che nei giorni successivi alle feste o alle ferie le case paterne si svuotano d’allegria e si riempiono di tristezze, i ragazzi ripartono, finisce l’incanto, l’euforia delle allegre tavolate, delle vigilie, di cenoni e pranzi, le case ritornano vuote, fredde, magari più pulite, ma essi non ci sono più. Il sorriso di chi li ha visti nascere e crescere, giocare, studiare, amare, si ritrae nella rassegnazione. In macchina o in aereo l’ultimo sguardo, non sai nemmeno se è l’ultima volta. Vanno a consumare il resto dell’anno nelle solitudini metropolitane, in città linde ma anonime, dentro stanze disadorne e senza il calore. È il prezzo del nascere al sud. È uno dei costi più alti che il sud ha pagato e continua a pagare, ovvero il dolore per la forzata interruzione del rapporto familiare. È condanna, lacerazione degli affetti, spandersi di solitudini, lontananze ed attese divorate dal tempo, fine anche della consanguineità, abbandono della memoria, riduzione fantasmica del proprio vissuto. Quando nascono sappiamo già che un giorno ci lasceranno, li lasceremo andare. Li ritroveremo a Natale o in estate, attorno alla tavola, nella loro stanza rimasta com’era, davanti a questo mare bellissimo, davanti a questa sbronza quotidiana di luce, davanti a questa fissità dell’essere, dove tutto sembra compiuto, senza essere neanche cominciato.

peppino-impstato-padre-e-figlioMi ritrovo a discutere su questa dinamica degli affetti familiari, dopo essere stato, nel ’68 un deciso contestatore della famiglia, uno che ripeteva lo slogan “la famiglia è ariosa e stimolante come la camera a gas”, che viveva la dipendenza economica familiare come un ricatto, con l’obbligo di seguire scelte non condivise, uno che leggeva tutto il meccanismo educativo familiare come momento di trasmissione autoritaria e di riproduzione di idee e contenuti violenti e ipocriti, da quelli religiosi a quelli morali, a quelli politici. Mi ritrovo davanti Peppino Impastato che si veste a lutto dopo la morte del padre, e Luigi Impastato che mi diceva: “Glielo dica lei, che ha la testa più a posto, non mi interessa se fa politica, mi basta che si mette a studiare e si prende un pezzo di carta”: strano intreccio di amori negati e sempre presenti. Mi ritrovo dopo anni di assenza, a portare un fiore sulla tomba dei miei genitori, a rivederne i fotogrammi in alcune fasi della mia esistenza e a spiegarmi le motivazioni dei loro atteggiamenti spesso conflittuali nei miei riguardi. Mi ritrovo nelle tracce dorate dell’infanzia, dove ancora posso divertirmi con un nipote. E ancora, mi ritrovo a intristirmi al pensiero di non avere fatto tutto quello che avrei potuto o dovuto fare per dare ai figli una qualche dignitosa prospettiva di vita, secondo i canoni sociali correnti, solo per la mia ostinazione nel non voler essere complice dei perversi e criminali meccanismi con cui la classe agiata comanda e si riproduce. Non il familismo, non le false regole, ma semplicemente l’amore familiare, il rapporto interpersonale, il piacere di un abbraccio o il dispiacere di un addio, la divisione del pane, (“cum panis”) per cui si diventa “compagni”, anche con i propri familiari.

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato.

Hide picture