9 maggio tra Peppino Impastato e Aldo Moro

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Si è svolto il 07/05 a Cinisi un convegno di testimonianza e analisi sulle figure di Aldo Moro e di Peppino Impastato, presente, fra l’altro la figlia di Moro Agnese, assieme a Giovanni Impastato, Giovanni Russo Spena, vicepresidente della Commissione Antimafia sul caso Impastato, al giudice Gianfranco Donadio, a Umberto Santino e alla scrittrice Rita di Giovacchino e a Francesco La Licata.

È stata un’occasione per attraversare quarant’anni di storia attraverso i mille rivoli dei depistaggi, delle trame nere, della guerra fredda, della strategia anticomunista degli USA e della D.C. interamente asservita agli americani, delle aperture di Moro verso nuovi orizzonti che traghettassero il più grande partito comunista d’Europa all’interno di un’ipotesi di governo frettolosamente chiusa trent’anni prima. Agnese Moro ha ricordato la strategia della non-trattativa scelta allora da D.C. e P.C.I. nel tentativo di mettere al muro le Brigate Rosse, ma anche di liberarsi di uno scomodo personaggio che anche nelle strategie politiche interne non era in linea con altri settori delle scelte politiche italiane internazionali. La coincidenza di data con la morte di Peppino Impastato è stata associata a fantastiche ricostruzioni e accordi tra Brigate Rosse e mafia, e a surreali accordi secondo i quali Badalamenti avrebbe dato il suo assenso all’omicidio di Moro e ottenuto quello dell’omicidio di Impastato. Roba da manicomio.

Da qualche anno il 9 maggio è stato proclamato giornata delle vittime del  terrorismo, in ricordo soprattutto della morte di Aldo Moro “ucciso come un cane dalle Brigate Rosse” (per citare una frase che lo scrivente pronuncia nel film “I cento passi”). Ma altre vittime del terrorismo occorre ricordare, dai morti della stazione di Bologna a quelli di Piazza Fontana, in un mostruoso progetto che, dalla fine degli anni 60 ha attanagliato l’Italia in una mossa mortale, dietro cui agivano in silenzio e con il massimo della copertura e dell’impunità neofascisti, piduisti, mafiosi, servizi segreti, partiti politici e altri violentatori della democrazia italiana. Tutto questo è passato e sembra appartenere a un altro mondo, a parte qualche cerimonia occasionale che ci ricorda molto ritualmente ciò che per altri è meglio rimuovere e dimenticare. Quello che da Cinisi, il paese di Peppino Impastato, non siamo riusciti a fare, malgrado le nostre proposte, è di associare, nell’occasione del 9 maggio, alle vittime del terrorismo, le vittime di mafia, ovvero le vittime di un terrorismo che ha ricoperto le strade d’Italia di bombe, attentati, omicidi a sangue freddo, incursioni di commandos specializzati nel seminare morte e distruzione. Cioé, ancora una volta, di associare Peppino Impastato ad Aldo Moro, entrambi morti nello stesso giorno ed entrambi vittime, da aspetti diversi, del terrorismo. Difficile trovare spiegazioni: Peppino è stato già individuato, a suo tempo, come terrorista, e riabilitato solo dopo un lungo e paziente lavoro di ricostruzione della sua immagine e del suo lavoro politico, condotto dai suoi amici e dalla famiglia. Nulla a che fare tra l’extraparlamentare rivoluzionario e disturbatore della quiete pubblica, negli anni in cui, per vie stellarmente diverse, Aldo Moro cuciva con sapienti manovre la sua strategia di apertura a tutte le forze della sinistra. Peppino riteneva che il riformismo di Moro altro non fosse che un momento del consueto lavoro di ricomposizione e di rafforzamento delle forze dominanti a scapito dei bisogni dei lavoratori, o attraverso tagli e sacrifici che avrebbero rafforzato il potere e chi lo deteneva. Peppino riteneva che il potere democristiano fosse “banditesco e truffaldino”, più o meno come lo sono stati gli ultimi governi di centro destra e di centrosinistra. Moro pensava ad altre strategie non certamente di rottura, ma di ”buon governo” in cui alle forze progressiste si offriva la possibilità di essere coinvolti nello stesso disegno politico di avanzamento sociale della nazione.

Nessun punto di contatto tra queste due dimensioni di progetto politico, dove l’intransigenza dell’estrema sinistra si scontrava con l’arte della mediazione attraverso i mille tentacoli della politica e del malaffare.

“La D.C. non si processa”, aveva detto Moro, più o meno come ogni capo di governo dice del suo partito politico. La sconsideratezza e il fanatismo di alcuni “presunti” compagni hanno reso Moro martire, uccidendolo, tanto quanto la ferocia e l’intolleranza di alcuni mafiosi hanno fatto con Peppino. Altro non c’è. E tuttavia, vista la tendenza, da parte di ogni parrocchia, a ricordare i propri morti, oggi rendiamo omaggio dovuto a Moro, ma ci riconosciamo, senza ombra di dubbio, nella grande eredità di lotta politica tracciata da Peppino.

Un’ultima nota: anche la strategia informativa si associa a questa doppia identificazione di morti di serie A e B. Poche parole, a parte quelle dovute  all’uscita del film di RAI 1 su Felicia, sono state spese da parte dei giornali su quanto sta accadendo Cinisi, diventata, in questi  giorni, la capitale nazionale dell’antimafia, un’autentica fucina di idee e di analisi sui problemi della società contemporanea, con l’intervento di noti studiosi, giornalisti, protagonisti. Tanto per chiarire la vecchia strategia della notizia che diventa tale solo quando è trasmessa da un mezzo d’informazione. Altrimenti è meglio ignorare, oscurare, cancellare.

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